lunedì 29 agosto 2011

4.3 DISLESSIA






Proviamo a capire cosa vuol dire e da dove deriva il termine dislessia.

Tutti gli autori hanno richiamato le origini del nome dislessia, da quello di alessia apparso subito prima; gli svizzeri hanno preferito il termine legastenia e gli inglesi parlano di ritardo nella lettura. Fu Orton, che per primo, lanciò l’idea che fosse dovuta al mancinismo contrastato. Fra i pionieri, Halgreen sembra aver fatto il più importante sforzo per definire la malattia dai suoi effetti; in Specific Dyslexia egli la caratterizza nel modo seguente:

·            difficoltà ad imparare a leggere e a scrivere;

·            progressi nella lettura costantemente al di sotto della media della classe;

·            discordanza fra i progressi in lettura-scrittura ed i progressi nelle altre materie;

·            discordanza fra i risultati in lettura-scrittura ed intelligenza generale.

 Fin dalla definizione di questi primi criteri diagnostici, fecero la loro comparsa i metodi di cura. Rendiamo onore alla prima fondatrice di un metodo per la rieducazione dei dislessici: Edith Norie, alla quale la Danimarca deve il merito di essere attualmente il paese più avanzato nel trattamento della dislessia, con le classi speciali interne all’ordinamento scolastico.

 Quasi tutte queste definizioni sono a mezza strada fra una pseudodefinizione mediante i sintomi (disturbo dell’apprendimento della lettura) ed una definizione mediante le cause. Più vicina ad una eziologia degna di questo nome (almeno per quanto riguarda il punto di vista epistemologico), posso citare l’idea della scuola psicoanalitica (reazione di opposizione), quella di Chassagny che ne fa <<un disturbo della comunicazione e dell’espressione >>.

L’autore nel caso dell’apprendimento della lettura e della scrittura afferma:

Saper leggere e scrivere significa riconoscere le singole lettere, e il valore di posizione delle singole lettere all’interno della parola: riconoscere le singole lettere è funzione della percezione e della rappresentazione mentale, riconoscere il valore di posizione delle singole lettere all’interno della parola è funzione dell’intelligenza.

La definizione di dislessia data dalla commissione superiore del Ministero della Sanità del governo olandese recita:

Si ha dislessia quando l’automatizzazione nella identificazione della parola nella lettura e/o nella scrittura non si sviluppa , o si sviluppa in maniera incompleta, o con grandi difficoltà []. Il termine automatizzazione esprime la stabilizzazione di un processo caratterizzato da un alto grado di velocità e accuratezza. Esso viene realizzato inconsciamente, richiede un minimo impegno attentivo, ed è difficile da sopprimere, da ignorare o influenzare.



La “classica” distinzione raggruppa le dislessie in tre ambiti: la dislessia cosid­detta costituzionale, considerata la più grave e la meno cura­bile, ricollegata ad una lateralizzazione male strutturata ed a disturbi di linguaggio; la dislessia evolutiva, rilevata in occa­sione dei primi esercizi scolastici in seguito ad una mancata scoperta del mancinismo o per effetto di un metodo difettoso di apprendimento, innestata su un orientamento incerto; e la dislessia cosiddetta affettiva, diagnosticata nei casi in cui non si potevano ritrovare né disturbi del linguaggio, né della struttu­razione spazio-temporale ed in cui, solo un blocco affettivo che si esprimeva elettivamente nel campo della lettura, poteva ren­der conto del fenomeno.

Io personalmente non sono d’accordo con queste distinzion,i ma le riporto perché non voglio citare solo quelle idee che coincidono con la mia, ma vorrei che ogni lettore si facesse, dopo un’attenta lettura, delle idee proprie, anche se discordanti dalle mie.

 Questa distinzione, infatti, pur avendo il merito di essere chiaramente intelligibile, nella pratica è meno utile di quanto sembri. A mio avviso, è più utile una distinzione come quella effettuata da Succhielli e Bourcier[1] basata sui disturbi originali e sulla gravità dei traumi che hanno pesato e pesano sull’alunno:

dislessie leggere, dai sintomi circoscritti, in un sog­getto di intelligenza viva e che è parzialmente riuscito nelle compensazioni o sovra compensazioni, senza antecedenti gravi ed attualmente sorretto da educatori e genitori.

a)       dislessie medie, dai sintomi molto apparenti, strari­panti sul linguaggio e sulla scrittura, ma senza generalizzazione e con non trascurabili forze di resistenza dell'Io. Il bambino è ancora giovane, è appena entrato nella scuola primaria.

b)       dislessie gravi, con anamnesi pesante, in corso di ge­neralizzazione, con comportamento reattivo nevrotico da parte dell'ambiente. Mezzi di compensazione scarsi o nulli.

c)        dislessie gravissime, con tutto il seguito di turbe sul piano   scolastico, intellettuale, affettivo, e centro di una generalizzazione che si è costituita e strutturata da molto tempo.

Questa distinzione ha, invece, il merito di aiutare l’insegnante a capire meglio con che tipo di problema si deve relazionare e quindi anche le aspettative che deve avere, soprattutto se deve insistere per avere un aiuto da parte delle strutture esterne alla scuola.

Una distinzione che reputo indispensabile è quella tra: dislessia acquisita, cioè quando un soggetto che è in grado di leggere normalmente comincia a compiere errori oppure non riesce più a riconoscere le parole con la stessa facilità; e dislessia evolutiva, cioè di origine genetica, che si presenta con maggiore intensità all’inizio dell’attività scolare. Nel primo caso si fa riferimento a soggetti che hanno riportato lesioni, per cause patologiche o traumatiche, nelle aree corticali che sono coinvolte nel processo di transcodifica.

La distinzione tra dislessia acquisita e dislessia evolutiva non è solo una questione di epoca di comparsa, in quanto, nel primo caso, il soggetto ha già appreso il processo di transcodifica, nel secondo la difficoltà è proprio nell’apprendimento del codice scritto. In secondo luogo le cause, nel primo caso, sono dovute a una lesione, nel secondo a cause congenite (anche se comunque interessano sempre il substrato neurobiologico coinvolto nel processo); nel  caso della dislessia acquisita il danno può essere anche molto circoscritto (per esempio, solo riconoscimento di parole nuove), mentre nel  caso della dislessia evolutiva il disturbo è molto più esteso soprattutto nelle fasi iniziali (per esempio, letto-scrittura dei numeri e scrittura delle parole).

Com’è facile capire, anche la procedure di rieducazione sono diverse; nel caso della dislessia acquisita si parlerà di rieducazione e recupero, nel caso della dislessia evolutiva si parlerà di attuazione di strategie per facilitare l’acquisizione del processo di transcodifica e la sua automatizzazione. La dislessia evolutiva è molto più frequente della dislessia acquisita e per questo che, quando si usa il termine dislessia senza alcuna specificazione, si intende la dislessia evolutiva.

Ho fatto questo breve accenno alla dislessia acquisita solo per far notare le differenze in modo che fosse chiaro che non si possono usare gli stessi metodi.



[1] MucchielliBourcier  (1974-86), La dislessia, La nuova Italia.

Nessun commento:

Posta un commento